SPEATA 2014: 15% DI PENDENZA, 100% DI SODDISFAZIONE
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Non vedevo l’ora di scriverlo questo post… forse perché pensavo che non l’avrei mai scritto. Per mille motivi (Jennesina disastrosa, Stralivigno sulle gambe, muscolo del quadricipite che da settimane mi chiede perché non lo porto a far vedere da qualcuno, ecc.) avevo con grande dispiacere deciso che anche per quest’anno non ero pronta ad affrontare questi 12 km di salita da Subiaco a Monte Livata.
Non era saggio, non era logico, quindi ovvio che sono bastati un paio di commenti su FB a convincermi che non potevo concludere la prima parte della stagione podistica fuori Lazio… e quindi tutto sommato… se po’ fa…
Specie se si è in buona compagnia, specie se c’è la promessa di un pic nic in quota… e nonostante il Secco faccia pronostici di acqua a catinelle… quella del resto ormai non mi preoccupava: da un po’ di gare a questa parte ho capito che devo diventare una ramarra anfibia e non pensarci più.
Ed eccoci qui allora a puntare la sveglia pure prima che durante la settimana, a scolare la prima abbondante tazza di caffè (non me lo dite, lo so che non si beve il caffèlatte prima di una gara, ma pazienza, si vede che almeno su questo ho vinto la battaglia con il mio corpo e problemi non ne ho mai avuti), a correre lungo il raccordo e l’autostrada, ad arrancare per le statali con i loro bastardissimi limiti di velocità, fatti apposta per dare l’occasione ai piccoli comuni di staccare un po’ multe e raddrizzare il bilancio….
E poi su, in macchina, per i tornanti che portano a Monte Livata, cercando di costruire su due piedi una tattica di gara che andasse oltre il solito “quando non ce la faccio più cammino”… cercando di convincersi che in fondo qualche pezzo su cui tentare un allungo c’era, che era una bellissima notizia un ristoro ogni 3 km… insomma, le solite tattiche di training psicoblabla che occupano il tempo dalla sveglia all’inizio della gara.
Solita ressa alla navetta per tornare da basso, solite acrobazie per l’ultima pipì e solita corsa per posizionarsi dietro al gonfiabile giusto un minuto prima dello sparo.
E poi si comincia, aggredendo i primi kilometri belli duri con un’incoscienza non priva di metodo: correre il più possibile anche se piano, riprendere fiato e poi ricominciare, un occhio al Garmin per non concedere al fiatone niente più del necessario, e un altro agli altri atleti, per spiare chi sta tirando più di te e trovare ispirazione.
Questa è stata per me, un po’ come la Stralivigno della settimana scorsa, una gara in cui ho visto sfilare avanti e indietro un po’ sempre le stesse maglie, nel senso che dopo i primissimi kilometri eravamo un po’ sempre gli stessi ad alternarci nel tentare una corsa un po’ più decisa per poi arrendersi alla camminata e farsi riagguantare. Un ritmo tutto sommato confortante, democratico nell’unire uomini e donne, vecchi e giovani, magri e grassi (pardon robusti, ma siccome nella categoria rientro anch’io me lo permetto…).
Primo ristoro, una bella spugna a tergere il sudore e un bel bicchiere d’acqua fresca. Ero (eravamo, visto che Laura ha condiviso lo sforzo con me per tutta la strada) stata lenta, ma forse un po’ meno di quel che pensavo, e questo mi ha dato lo slancio per ripartire con più energia e devo dire anche un sorriso in più. In fondo ne mancavano solo 9 e a quanto si diceva il peggio era passato.
Lo ammetto, al 6° km ero talmente su di giri che mentalmente ho cominciato a scrivere questo post…se ero arrivata fin lì (e oltretutto il mio Garmin segnava anche 300 metri in meno quindi per un complesso – e assurdo- calcolo in realtà ero più avanti) potevo farcela, e forse pure in un po’ meno tempo di quello (invero un po’ rinunciatario) che avevo programmato.
È vero, aveva cominciato a piovere, ma non tanto e quindi, a parte rinunciare allo spugnaggio (seppur con dispiacere vendendo il dolore che provocavo alla povera volontaria della protezione civile che aveva pazientemente atteso fino al mio arrivo), il meteo in realtà aiutava, mantenendo la temperatura entro livelli più che ragionevoli.
Per misteriose ragioni alla Speata manca il cartello del km 7. Non so se sia il frutto di una decisione dell’organizzazione basta su una raffinata strategia psicologica per ingannare/incoraggiare l’inconsapevole runner, o semplicemente dipenda dal fatto che se lo sono perso e nessuno ha ritenuto utile rifarlo, fatto sta che ci si trova all’8 e si pensa che il 2/3 sono andati, che gli ultimi due non sono poi così male, e che quindi la gara in pratica è finita.
Malissimo, specie se a quel punto la simpatica pioggerellina di cui sopra decide di trasformarsi in un energico scroscio.
Ma pazienza, perché è vero che a quel punto la voglia di arrivare è tanta e quindi si stringono i denti e si va, si beve senza quasi accorgersene al km 9 e finalmente si intravedono gli orrendi albergoni di Monte Livata, e mia vista fu più attesa.
L’orgoglio ti spinge a tirare almeno un po’ sugli ultimi due chilometri, il traguardo ormai prossimo e la vista di Rita che aspetta per scattare all’arrivo che ti fa tirare fuori un sorriso e un gesto di vittoria.
Che ci sarà da esultare per 1ora e 35 per 12 chilometri ci sarebbe forse da chiedersi. Ma io non me lo chiedo, perchè ognuno di quei tornanti mi ha dato un po’ di fiducia sulla possibilità di affrontare anche le gare più difficili come forma di allenamento mentale oltre che fisico. Non me lo chiedo perché a questo punto non vedo l’ora di convincere qualcuno che nonostante la pioggerellina e il cielo nero visto che ci siamo portati le cibarie per il pic nic tanto vale mangiarle insieme e prolungare almeno un po’ il piacere della compagnia ramarra.
Non me lo chiedo soprattutto perché ho già deciso che l’anno prossimo ci ritorno e ci riprovo e vedremo se mi riesce di migliorare almeno un po’.